Omessa TAC e il paziente muore: la scelta del medico va valutata considerando la prassi dell’epoca
Nessuna addebito per i medici a fronte del decesso di un giovane colpito in pochi giorni da una doppia emorragia

Se il medico finisce sotto accusa per un presunto errore, è necessario valutarne la condotta tenendo conto dei protocolli esistenti all’epoca dei fatti. Questo il principio fissato dai giudici (sentenza del 25 novembre 2024 del Tribunale di Brescia), chiamati ad accertare eventuali responsabilità per il decesso di un ragazzino che era stato portato in Pronto Soccorso a seguito di un episodio verificatosi a scuola, dove era stato colpito da un attacco di tosse con emissione di una consistente quantità di sangue dalla bocca. Per i giudici non ci sono dubbi: la valutazione sulla presunta responsabilità dei medici deve essere effettuata ponendosi in una prospettiva ex ante, cioè quando essi hanno agito. E proprio ragionando in questa ottica, i giudici hanno escluso, nel caso specifico, addebiti per i medici. Questi ultimi hanno invece tenuto, spiegano i giudici, l’approccio che poteva essere loro richiesto, in base ai protocolli esistenti all’epoca dei fatti, di fronte all’arrivo del ragazzo in ‘Pronto Soccorso a seguito della prima emorragia’. Nello specifico, i medici, dopo la raccolta anamnestica e l’esame obiettivo del giovanissimo paziente, anche se non vi erano chiari elementi clinici di allarme, avevano predisposto velocemente l’esecuzione di esami ematochimici e una radiografia al torace nonché delle consulenze specialistiche di un otorinolaringoiatra e di uno pneumologo. La radiografia non rilevava alterazioni patologiche, mentre la consulenza otorinolaringoiatrica indicava quale probabile origine dell’emorragia le basse vie respiratorie e la consulenza pneumologica ravvisava la possibile sussistenza di un quadro flogistico polmonare, confermando così la genesi dell’emottisi da un’infezione polmonare. Pertanto, le informazioni all’epoca disponibili ai sanitari (compresi lo stato di salute del ragazzo e la sua storia pregressa) descrivevano un quadro di emottisi moderata a sospetta origine infettiva e imponevano ai sanitari il monitoraggio del paziente con l’impostazione di una terapia antibiotica. A ciò va poi aggiunto che durante la degenza le condizioni cliniche del ragazzo miglioravano progressivamente e anche i risultati degli esami ematochimici confermavano il miglioramento delle sue condizioni cliniche. In sostanza, ponendosi in una prospettiva ex ante e in base alle linee guida e alle buone pratiche in vigore all’epoca per evitare di sottoporre i pazienti ad esami invasivi e superflui nonché potenzialmente dannosi per la loro salute, secondo i giudici non vi sono stati errori o inosservanze di doverose regole di condotta nell’operato del personale medico durante il periodo di ricovero del giovane paziente all’interno dell’ospedale, né da parte dei medici che lo hanno soccorso dopo la seconda emorragia. Tirando le somme, i medici hanno operato correttamente nella misura in cui, dopo i tre giorni in ospedale, hanno concluso l’indagine diagnostica, non approfondendola ulteriormente con una TAC, in quanto non sussistevano le condizioni per un approccio diagnostico più invasivo. E l’opposto comportamento di eseguire una TAC sul paziente non sarebbe stato esigibile dai sanitari, in quanto dalle informazioni che essi avevano in quel momento non era possibile ipotizzare l’esistenza di una malformazione artovenosa polmonare, poi risultata fatale al giovane. Anzi, secondo i giudici, i medici avrebbero violato le leges artis se, nonostante l’assenza di indicazioni in tal senso da parte delle linee guida all’epoca vigenti, avessero deciso arbitrariamente di sottoporre il paziente ad accertamenti diagnostici non raccomandati. Respinte, quindi, le accuse mosse ai medici dai genitori del giovane, il quale, dopo i primi accertamenti disposti dal ‘Pronto Soccorso’, era stato ricoverato per sospetta emottisi e sottoposto ad ulteriori esami all’apparato respiratorio, e poi, tre giorni dopo il ricovero, dimesso con la diagnosi di flogosi delle alte vie aree e prescrizione di terapia antibiotica per quattro giorni. Appena conclusa la terapia, e a cinque giorni esatti dalle dimissioni dall’ospedale, il ragazzo, mentre si trovava nel cortile di casa, accusava nuovamente malessere e perdeva nuovamente sangue dalla bocca. All’arrivo delle ambulanze il ragazzo risultava privo di coscienza e nonostante la aspirazione del materiale ematico e l’intubamento, con manovre di rianimazione cardiopolmonare, dopo circa trenta minuti i sanitari erano costretti a constatare il decesso. Impossibile, secondo i giudici, sostenere, come fatto dai genitori del ragazzo, che vi era stato un inadempimento della struttura sanitaria per non aver approfondito la patologia del figlio mediante l’esecuzione di una TAC a seguito della prima emorragia e che tale accertamento diagnostico avrebbe scongiurato la seconda emorragia poi rivelatasi fatale, consentendo di scoprire la presenza di una malformazione arterovenosa polmonare del proprio figlio e quindi di disporre l’esecuzione di un intervento di escissione chirurgica, che avrebbe impedito la seconda emorragia e quindi la morte.